info@goldenblatt.co.uk
49 Russell Square, London, UK

Follow us:

Commerciale e SocietarioFrancesco VitellaLavoro e PrevidenzaPaola CarlottiPer la Corte di Cassazione il presidente del consiglio di amministrazione di una società di capitali non può essere al contempo dipendente della stessa

ABSTRACT – In tema di coesistenza tra rapporto di lavoro subordinato e carica sociale in capo alla medesima persona, la Corte di Cassazione ha esteso i principi elaborati in relazione all’amministratore unico di società di capitali al presidente del consiglio di amministrazione delle stesse, nella specie di società cooperativa, affermando l’assoluta incompatibilità tra tale ultima carica e il rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della società amministrata.

TESTO – Con una recente sentenza, la Corte di Cassazione ha affermato il seguente principio di diritto: “in tema di imposte sui redditi, sussiste l’assoluta incompatibilità tra la qualità di lavoratore dipendente di una società di capitali e la carica di presidenza del consiglio di amministrazione o di amministratore unico della stessa…”.[1]

La questione della cumulabilità o meno dei due rapporti in capo alla medesima persona può dirsi relativamente presidiata, tanto da numerose pronunce giurisprudenziali, quanto da ricorrenti chiarimenti degli enti, primo fra tutti l’INPS che, sul punto, ha emanato svariate circolari e messaggi[2]. Il tema ha, infatti, rilevanti implicazioni anche in relazione alle assicurazioni obbligatorie previdenziali e assistenziali (oltre che in merito alle imposte sui redditi e alla determinazione del reddito di impresa).

Fino a poco tempo fa la questione poteva dirsi pressoché composta, tanto è vero che l’INPS, con il dichiarato intento di “assicurare uniformità di comportamento”, aveva illustrato in un proprio messaggio “il consolidato orientamento formatosi in seno alla giurisprudenza di legittimità in ordine alla compatibilità tra la titolarità di cariche sociali e l’instaurazione, tra la società e la persona fisica che l’amministra, di un autonomo e diverso rapporto di lavoro subordinato”.[3]

Alla luce di tale consolidato orientamento, la cumulabilità in capo alla medesima persona dei due rapporti andrebbe esclusa a priori ove la carica sociale sia quella di amministratore unico. Quest’ultimo, infatti, è detentore del potere di esprimere da solo la volontà dell’ente sociale; inoltre, in tale ipotesi, non sarebbe configurabile alcuna distinzione soggettiva tra il “lavoratore subordinato” e l’“organo direttivo”, con la conseguenza paradossale – evidentemente inaccettabile – che il medesimo soggetto finirebbe per essere il datore di lavoro di se stesso.[4]

Nel caso, invece, dell’amministratore delegato, la cumulabilità non andrebbe esclusa a priori, ma solo laddove la portata della delega conferita dal consiglio di amministratore sia di ampiezza tale da impedire la sussistenza di un effettivo e concreto vincolo di subordinazione (come nel caso di delega generale, ma non anche di quello dell’attribuzione di deleghe specifiche e limitate).

In tutte le altre ipotesi – come chiarito dalla giurisprudenza, puntualmente ripresa dall’INPS – andrebbe condotta una verifica in fatto volta ad accertare, in primo luogo, l’esistenza del c.d. vincolo di subordinazione – cioè, il concreto assoggettamento del dipendente-amministratore al potere direttivo, organizzativo, disciplinare e di controllo dell’organo amministrativo collegiale – e, in secondo luogo, il concreto svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita, dovendo distinguersi la prestazione di lavoro (rivolta alla realizzazione, operativa, degli obiettivi dell’impresa, così come fissati dall’imprenditore, in concorso con l’opera prestata a favore della società dagli altri lavoratori) dall’attività di amministratore (che si basa su una relazione di immedesimazione organica, volta all’attuazione dell’oggetto sociale).

Pertanto, per costante insegnamento giurisprudenziale e nella prassi dell’ente, la valutazione sulla cumulabilità dello status di amministratore di società di capitali con lo svolgimento di attività di lavoro subordinato finisce per svilupparsi in un giudizio bifasico, consistente, quanto alla prima fase, nella verifica circa l’astratta possibilità di instaurare contemporaneamente i due rapporti e, quanto alla seconda, nell’accertamento, in concreto, dell’oggettivo svolgimento di attività estranee alle funzioni inerenti al rapporto organico con i caratteri tipici della subordinazione.

Nel ribadire tale impostazione, la sentenza in commento ha compiuto la verifica di cui alla prima fase, estendendo il novero delle fattispecie che, ove ricorrenti, precludono lo svolgimento della seconda, nel senso che permettono (o meglio, impongono) già di escludere la cumulabilità dei due rapporti in capo alla stessa persona. La Corte si è, infatti, limitata all’esame astratto della fattispecie, pervenendo a una decisione di incompatibilità tout court in assenza di una verifica in concreto della posizione del presidente-lavoratore subordinato, del quale non è invero dato sapere, tra il resto, se avesse o meno poteri gestori.

Viene, peraltro, fissato un principio generale, riferito a tutte le società di capitali, senza distinguere tra i diversi regimi applicabili agli amministratori di società per azioni e a quelli di società a responsabilità limitata e senza entrare nel merito delle previsioni statutarie e di legge in merito al potere di rappresentanza più volte richiamato nella sentenza.

Tale approfondimento sarebbe stato per certi versi opportuno, trattandosi di una novità giurisprudenziale tutt’altro che irrilevante, perché – se seguita – imporrà al giudicante di giungere meccanicamente a conclusioni necessitate (i.e. l’esclusione del cumulo), senza che le parti abbiano la possibilità di provare che, nonostante l’affidamento dell’incarico di presidente del consiglio di amministrazione, sussistono in concreto tutte le condizioni elaborate dall’orientamento consolidato sopra ricordato affinché si possa ravvisare una ipotesi di cumulo legittimo.

Nel caso deciso dalla sentenza in parola, la Corte di Cassazione ha, infatti, laconicamente affermato che, “poiché V.R. [ndr. l’amministratore-lavoratore] ricopriva l’incarico di presidente del consiglio di amministrazione della società, va del tutto esclusa, limitatamente alla sua posizione, la possibilità di svolgere un’attività di lavoro subordinato in favore della stessa società”.

Sul punto, l’INPS aveva assunto una posizione meno restrittiva, affermando che la carica di presidente, in sé considerata, non è incompatibile con lo status di lavoratore subordinato, perché anche il presidente, al pari degli altri componenti del consiglio di amministrazione, può essere soggetto alle direttive, alle decisioni e al controllo dell’organo collegiale, precisando altresì che “tale affermazione non è neppure contraddetta dall’eventuale conferimento del potere di rappresentanza al presidente, atteso che tale delega non estende automaticamente allo stesso i diversi poteri deliberativi”.[5]

L’INPS sembra, quindi, tenere presente la distinzione tra potere di rappresentanza e potere gestorio che non pare, invece, essere stata considerata dalla Corte di Cassazione, che giunge ad affermare: “Quanto a R.V. [ndr. l’amministratore-lavoratore], era presidente del consiglio di amministrazione, sicché essendo munito della rappresentanza generale della società, non era ammessa la contemporanea presenza dell’attività di lavoro subordinato, poiché il potere di rappresentanza equivaleva al potere di controllo, con la conseguente incompatibilità delle due cariche”.

Peraltro, la pronuncia in commento, nel ricostruire l’orientamento giurisprudenziale in materia a sostegno della propria decisione in merito alla portata “escludente” della carica di presidente, ha richiamato un proprio precedente,[6] che, a ben vedere, non si è occupato della compatibilità tra il rapporto di lavoro subordinato e la carica sociale di presidente, bensì di quella di consigliere con deleghe.[7]

Sarà interessante vedere se e come la giurisprudenza darà continuità a tale pronuncia.


[1] Così, Cass. Civ., sez. trib., 23 novembre 2021, n. 36362.

[2] Cfr. inter alia Circolare INPS 8 agosto 1989 n. 179; Messaggio INPS 7 giugno 2007 n. 15031; Messaggio INPS 18 luglio 2007 n. 18663; Messaggio INPS 8 giugno 2011 n. 12441; Messaggio INPS 17 settembre 2019 n. 3359.

[3] Si tratta del Messaggio INPS 17 settembre 2019 n. 3359.

[4] Ulteriore ipotesi di indubbia incompatibilità sarebbe quella del socio, specie se titolare della maggioranza del capitale sociale o socio unico, che abbia concretamente assunto l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione della società.

[5] Si tratta del Messaggio INPS 17 settembre 2019 n. 3359.

[6] Si tratta di Cass., civ., sez. trib., 28 aprile 2021, n. 11161, che ha, peraltro, il medesimo Consigliere Relatore della sentenza in commento.

[7] Sul punto, tale precedente ha, peraltro, affermato: “non essendovi una incompatibilità assoluta tra il ruolo di componente del consiglio di amministrazione e la posizione di lavoratore subordinato (tranne che per le ipotesi di amministratore unico o socio unico azionista o quotista o per il socio ‘sovrano’) il giudice di merito avrebbe dovuto esaminare in concreto l’attività svolta… nell’ambito della società, valutando se sussistessero o meno i presupposti del rapporto di lavoro subordinato”.


Foto: Sketch of Max Schmit in a Single Scull, Thomas Eakins, 1874