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Niccolò D'AndreaProcedura CivileLe novità della Riforma del Processo Civile

11 Novembre 2022by Niccolò D`Andrea

La pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, avvenuta solo lo scorso 17 ottobre, del Decreto legislativo n. 149/2022 costituirà con tutta verosimiglianza un momento di svolta non solo per il pubblico degli operatori del processo civile, ma anche per tutti i suoi utenti finali, ossia coloro che si rivolgono alla giustizia o sono a vario titolo coinvolti in una controversia giurisdizionale. Anche circoscrivendo il perimetro di osservazione al solo ambito del contenzioso civile ordinario, le novità sono numerose e vanno certamente nel senso di perseguire il riassetto ‘formale e sostanziale’ che, per usare le parole della Relazione, si propone il testo legislativo. In un simile contesto, meritevole di analisi ben più approfondite, l’obiettivo di questo breve scritto è quello di fotografare, senza alcuna pretesa di completezza, alcune novità di interesse nella prospettiva non soltanto degli addetti ai lavori, ma dell’utente del servizio giustizia. È vero infatti che gli obiettivi della riforma – che sono quelli della “semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo civile” – sono perseguiti tramite interventi le cui implicazioni (per il loro grado di tecnicalità o, anche, per la complessità dei profili sottesi) non sempre è agevole cogliere nell’immediato.

Partendo da un elemento che può ritenersi caratterizzante sotto il profilo ‘programmatico’, salta all’occhio il nuovo testo dell’articolo 121 del codice di procedura civile, già in passato espressione del principio per il quale, salva diversa disposizione legislativa, gli atti del processo possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento dello scopo. Oggi tale articolo, significativamente rinominato “Libertà di forme. Chiarezza e sinteticità degli atti”, canonizza l’obbligo di redigere tutti gli atti del processo – dunque, sia le difese delle parti sia i provvedimenti del giudice – in modo “chiaro e sintetico”, secondo un principio ormai fatto proprio dalla Cassazione (che non a caso la Relazione richiama) e, secondo l’insegnamento di essa, immanente nel nostro ordinamento processuale ‘in quanto funzionale a garantire la ragionevole durata del processo’. La disposizione può dirsi trovare (almeno in parte) il suo contraltare nell’obbligo, sancito dagli artt. 163 e 167 c.p.c. (come riformati) rispettivamente, per attore e convenuto, che l’esposizione dei fatti e delle ragioni di diritto poste a fondamento della pretesa invocata in giudizio sia svolta “in modo chiaro e specifico”.

Un’altra novità significativa nel senso di contenere la durata dei procedimenti è rappresentata dalla previsione, inserita all’art. 183 c.p.c., per cui alla prima udienza il giudice fissa il calendario del processo, delle udienze successive e dei relativi incombenti. La previsione si inserisce in un quadro di rilevante variazione della preesistente struttura del processo di primo grado, di cui si dirà brevemente, e appare di rilievo non tanto in sé (la possibilità che venisse fissato il calendario del processo era già contemplata nelle disposizioni di attuazione del codice) ma per la sua collocazione in primo piano, nel vero e proprio codice di rito e nel contesto dell’udienza “fulcro” del procedimento di cognizione di primo grado.

Al riguardo, si è accennato a rilevanti variazioni alla struttura del processo di primo grado, peraltro culminanti proprio in relazione all’udienza di cui si diceva. Il riferimento è ai nuovi articoli 163-bis, 166, 171-ter e 183 c.p.c., il cui combinato disposto fissa la nuova “tempistica, per il vero piuttosto serrata, degli adempimenti previsti per il nuovo rito ordinario” (queste le parole della Relazione). In estrema sintesi, rispetto al passato (i) il termine dilatorio intercorrente tra la notifica dell’atto di citazione e, quindi, dall’introduzione del giudizio, e la data della prima udienza è stato esteso da novanta a centoventi giorni liberi; ma al contempo (ii) il convenuto deve costituirsi entro settanta (e non più venti) giorni prima della stessa udienza; inoltre (iii) sempre prima di tale udienza, le parti possono depositare tre memorie integrative ciascuna entro termini, perentori e a pena di decadenza, rispettivamente fissati in quaranta, venti e dieci giorni antecedenti l’udienza stessa. Ognuna di tali memorie, rispettivamente, è volta a (a) precisare le proprie domande, eccezioni e conclusioni nonché (per l’attore) a svolgere le domande ed eccezioni che siano conseguenza delle difese del convenuto e/o a chiedere di chiamare in causa un terzo, qualora l’esigenza sia nata per conseguenza delle difese del convenuto; (b) a replicare alle domande ed eccezioni nuove o modificate, a proporre le conseguenti eccezioni e (soprattutto) a compiere le produzioni e le richieste istruttorie destinate a supportare la propria domanda; (c) a chiedere la prova contraria. Per converso, sparisce ogni riferimento alle cosiddette ‘memorie istruttorie’, tipicamente chieste dalle parti e concesse dal giudice nel corso della prima udienza (talvolta come unica attività), talvolta con l’effetto di posticipare sino a una ulteriore udienza la decisione sulla ammissibilità o meno delle richieste istruttorie, che sovente equivale alla prima vera ‘presa di posizione’ del giudice rispetto al merito della causa. In pratica e per essere appena un poco più tecnici: dall’entrata in vigore della riforma (ossia, sia detto incidenter tantum, dal 30 giugno 2023) per i nuovi procedimenti il thema probandum e il thema decidendum (ossia, rispettivamente, il perimetro delle circostanze oggetto di prova e di decisione) non si cristallizzerà più a seguito dello scambio delle memorie oggi previste dal VI comma dell’art. 183 c.p.c., ma ben prima, sin dalla fase introduttiva del procedimento. In tal modo, il giudice interverrà in medias res allorché le parti hanno già avuto occasione di svolgere le rispettive repliche e, soprattutto, quando la tematica oggetto di causa è ben delineata, secondo uno schema che rievoca (forse con maggiore prevedibilità) l’abrogato rito societario, in vigore dal 2003 sino al 2009, nel quale le parti avevano la possibilità di scambiarsi sino a sette repliche prima che venisse fissata l’udienza.

Le ulteriori novità che meriterebbero una pur succinta menzione sarebbero davvero numerose e riguardano non solo il processo di primo grado, ma anche il giudizio d’appello e il processo per Cassazione. Solo en passant, possono ricordarsi (i) la modifica dei termini per lo scambio delle difese (comparse conclusionali e repliche) finali e ‘riepilogative’ dell’esito del dibattito processuale e dell’attività istruttoria, divenuto anch’esso a ritroso rispetto all’udienza in cui la causa viene rimessa al collegio per la decisione (o trattenuta in decisione in caso di giudice monocratico); (ii) la trasfusione del rito sommario di cognizione, già previsto dagli artt. 702-bis e seguenti, negli artt. 281 da decies a terdecies, con la nuova denominazione di ‘rito semplificato di cognizione’. Peraltro è stato previsto tout court che “il giudizio è introdotto nelle forme del procedimento semplificato” ogniqualvolta i fatti di causa non siano controversi, la domanda sia fondata su prova documentale o di pronta soluzione o (con una dizione forse eccessivamente generica) richieda “un’istruzione non complessa”; (iii) l’inserimento nel Codice di procedura della possibilità, divenuta celebre in epoca di lockdown, di tenere udienza tramite Teams o di sostituirla tout court con lo scambio di note scritte; (iv) l’abolizione del c.d. ‘filtro in appello’ nel senso che, a fronte di una domanda inammissibile o manifestamente infondata, la Corte d’Appello provvederà con sentenza “motivata in forma sintetica, anche con esclusivo riferimento” al punto ritenuto risolutivo, all’esito di un dibattito velocizzato.

Naturalmente non potranno essere che gli interpreti – giudici in primis, ma anche gli avvocati – a stabilire la sorte delle novità sin qui brevemente accennate e delle numerose altre previste dalla riforma. Se, da un lato, a questa vanno senz’altro riconosciute chances di incidere sui tempi – notoriamente lunghi – del processo civile, dall’altro fa forse riflettere la possibilità (nel contesto dei futuri processi retti dalla riforma) che le parti che si riterranno aver agito (o resistito) in giudizio con mala fede o colpa grave siano condannate non soltanto al ristoro in favore della controparte delle spese di lite nella misura aggravata già oggi prevista, ma di una ulteriore somma fino a cinquemila euro in favore della cassa delle ammende.

 

 


Foto: Wassily Kandinsky – Roter Fleck II – G 17562 – Lenbachhaus – Wikimedia Commons