La Corte di Cassazione italiana ha emesso diverse decisioni riguardanti la valutazione del danno in caso di violazione dei diritti di proprietà intellettuale e in particolare il criterio della “royalty ragionevole” nel 2021.
L’ultima decisione in ordine di tempo è la sentenza della Cassazione n. 24635 del 13 settembre 2021.
Nel caso in questione una società operante nella produzione e vendita di camicie ha citato in giudizio un concorrente per violazione di marchio.
Il titolare dei marchi svolge la propria attività attraverso canali diretti (e-commerce e negozi monomarca) e la sua attività è caratterizzata dall’utilizzo di un marchio piuttosto noto: “CAMICISSIMA” (che letteralmente significa un superlativo di ‘camicia’ in italiano e che potrebbe essere tradotto come “supershirt”, essendo quindi probabilmente oggetto di un fenomeno di secondary meaning). Tuttavia, il marchio di interesse in questo caso non era CAMICISSIMA, ma un altro marchio, cioè “MODO” (che letteralmente può essere tradotto in inglese come ‘mean’ o ‘way’..e in latino come mŏdus), che l’attore possedeva da oltre 20 anni ma che aveva usato molto poco, in modo sufficiente ad evitare una revoca per non uso ma con volumi commerciali molto ridotti.
La violazione del marchio MODO da parte del concorrente era perfettamente letterale, in quanto il contraffattore aveva utilizzato lo stesso segno per identificare le sue camicie. In tale contesto il Tribunale di primo grado ha (ovviamente) accertato la violazione e, in assenza di elementi rilevanti per il calcolo dei danni, ha affermato che questi potevano essere riconosciuti applicando il criterio della “royalty ragionevole”, come richiesto dal titolare del marchio. In particolare la Corte ha fissato il tasso di royalty ad un minimo del 2,5% (rispetto ad un possibile massimo del 10,5%) del fatturato del contraffattore. Ciò in considerazione della limitata diffusione del marchio in questione (come si evinceva dalle prove offerte dall’attore).
Il contraffattore ha presentato appello contro la sentenza di primo grado, solo con riferimento al risarcimento dei danni e la Corte d’Appello ha di fatto ribaltato la decisione di primo grado, affermando che anche se il criterio della royalty ragionevole è un modo adeguato per valutare i danni non può essere utilizzato come conseguenza “automatica” della violazione.
Il proprietario del marchio ha quindi portato il caso davanti alla Corte di Cassazione. Egli infatti affermava che la Corte d’Appello aveva sbagliato in quanto il criterio della royalty ragionevole è un criterio “residuale” e che il mancato guadagno può sempre essere determinato secondo il criterio noto come “giusto prezzo del consenso”, assegnando un importo non inferiore alla royalty che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare per ottenere una regolare licenza dal titolare del diritto violato. E questo indipendentemente dal grado di notorietà e diffusione del marchio, rappresentando un criterio standard minimo per la concessione del risarcimento.
A questo proposito il titolare del marchio richiamava in particolare il secondo comma dell’articolo 125 del Codice della Proprietà Industriale, che recita come segue:
“La sentenza che provvede sul risarcimento dei danni puo’ farne la liquidazione in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano. In questo caso il lucro cessante e’ comunque determinato in un importo non inferiore a quello dei canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso”.
La Corte Suprema ha respinto la richiesta del titolare del marchio confermando invece la decisione d’appello affermando che un mancato guadagno per il titolare del marchio “non può essere automaticamente assunto e in particolare non si può assumere che ogni vendita effettuata dall’autore della violazione sia una vendita non effettuata dal titolare del diritto”. Successivamente la Corte Suprema ha affermato che la Corte d’Appello aveva avuto ragione nel non concedere alcun risarcimento, poiché il proprietario del marchio MODO non aveva “provato la diluizione del marchio” e non aveva allegato “alcun fatto specifico che desse luogo a danni a causa della violazione del marchio”.
Questa decisione è stata vista con una certa preoccupazione dagli operatori giuridici italiani come una decisione che rende più difficile ottenere un risarcimento danni basato sul criterio della ragionevole royalty. Solitamente, infatti, quest’ultimo viene invocato quando l’avente diritto non è in grado di dimostrare una riduzione delle proprie vendite. La decisione chiarisce però che il criterio indicato dall’articolo 125, comma 2, risponde allo scopo di agevolare l’onere della prova a carico del titolare del diritto leso, il che può equivalere a un’attenuazione dell’onere stesso ma non può tradursi in un’esenzione assoluta dal rispetto dello stesso.
Possiamo a questo punto osservare che questa sentenza è molto adattata al caso e giustificata da circostanze di fatto in cui il marchio invocato non è stato quasi mai utilizzato dal proprietario. La Corte Suprema ha esposto una serie di elementi a sostegno di questa posizione:
– Il marchio, sebbene registrato da 38 anni, era quasi sconosciuto sul mercato (era stato usato molto poco, molto probabilmente solo per non essere revocato per non uso);
– Non era stato provato che nessun prodotto con il marchio contraffatto fosse commercializzato nei negozi indicati dall’attore;
– Il fatturato dei prodotti con il marchio contraffatto era sempre stato trascurabile (molto probabilmente le vendite erano state fatte solo per evitare la decadenza, vedi sopra);
– Non era stata fornita alcuna prova che il marchio fosse mai stato pubblicizzato e sulla base di “alcune verifiche sul motore di ricerca ‘Google'” – dice la Corte Suprema – era quasi sconosciuto al pubblico.
– Soprattutto, non c’era alcuna prova “dell’effettiva commercializzazione del prodotto, tale da dimostrare la conoscenza di quel marchio presso il pubblico di riferimento”.
Vale la pena notare che un’altra decisione della Corte Suprema emessa quest’anno, la n. 5666 del 2 marzo 2021, era stata molto più favorevole all’applicabilità del criterio della reasonable royalty. Tale decisione ricordava infatti che il danno può essere provato anche sulla base di semplici “elementi indiziari offerti dal danneggiato” e precisava inoltre che il proprietario non avrà nemmeno l’onere di provare “quale sarebbe stato il canone certo in caso di ipotetica richiesta”, rappresentando il criterio del canone ragionevole solo un “minimo obbligatorio”.
Ma quest’ultimo caso si riferiva effettivamente ai brevetti, dove probabilmente la mancanza di un uso regolare del diritto sul mercato da parte dell’avente diritto può essere vista con meno severità (essendo i brevetti a volte utilizzati anche solo per scopi difensivi o per tenere i concorrenti fuori da un certo mercato).
Quindi l’impressione è che il ricorso al criterio della royalty ragionevole sarà ora un po’ meno facile nelle cause sui marchi in Italia, specialmente quando si tratta di marchi “dormienti”.
Inutile dire che tutti gli aventi diritto hanno sempre un altro rimedio contro la contraffazione, che è la richiesta di recupero degli utili del contraffattore (retroversione degli utili). Quest’ultima, anche secondo le più recenti decisioni della Cassazione (n. 21832/2021), non richiede alcuna prova di un danno subito dall’avente diritto ma è una conseguenza automatica dell’accertamento della violazione.
*Articolo apparso per la prima volta sul blog IPKAT in data 18 novembre 2021 in lingua inglese
Foto: Luigi Russolo, Convivio (vecchi castagni), 1945