Il Tribunale di Milano (sentenza n. 706/2021) si è espresso sulle tematiche del requisito del carattere distintivo di un marchio e sulla possibilità che l’eventuale sua nullità originaria per eccessiva genericità venga sanata dall’acquisizione di un significato secondario da parte del segno, in ragione di un uso intenso e fortemente pubblicizzato dello stesso (c.d. secondary meaning).
La sentenza
Una società operante a livello internazionale nel settore dei detergenti per la pulizia (Alfa) era titolare di un marchio da tempo registrato e utilizzato per contraddistinguere alcuni propri prodotti, consistente nella parola BIOLINDO. Alfa conveniva dunque in giudizio una società austriaca, Beta, con l’accusa di contraffazione di marchio nonché di concorrenza sleale per aver utilizzato il segno BIOLINDO quale nome a dominio del sito aziendale, al fine di promuovere la vendita online di prodotti di pulizia a marchio diverso.
Costituitasi in giudizio, la società Beta chiedeva principalmente in via riconvenzionale che fosse dichiarata la nullità e/o decadenza del marchio, in ragione del suo carattere generico e dell’ampio utilizzo che viene fatto dei termini “bio” e “lindo”, ciò che evidentemente avrebbe dovuto far ritenere il marchio in questione una espressione di uso comune e quindi non suscettibile di esclusiva.
Il Tribunale ha accolto la domanda della convenuta dichiarando la nullità del marchio BIOLINDO per carenza di carattere distintivo, in ragione della natura descrittiva del segno rispetto ai prodotti contraddistinti, ed escludendo altresì che il marchio avesse acquisito nel tempo una sua propria capacità distintiva a fronte dell’uso che ne era stato fatto (c.d. “secondary mening”). A tale ultimo proposito il Tribunale ha ritenuto insufficienti a provare la convalidazione del segno, i risultati delle ricerche eseguite sul portale on-line “Google” del marchio BIOLINDO, la reperibilità del prodotto sul sito di vendite on-line “Amazon”, oltre che estratti di cataloghi pubblicitari che avrebbero testimoniato l’utilizzo del marchio BIOLINDO già da anni prima della sua registrazione.
La sentenza, caratterizzata da una dettagliata ricostruzione della disciplina in materia di marchi ‘descrittivi’, si segnala per la sua chiarezza espositiva e serve in qualche modo da monito per quei soggetti che scelgano segni generici per individuare i propri prodotti, non potendosi confidare eccessivamente nella esclusiva per il solo fatto della registrazione.
Sul carattere descrittivo del marchio
Il Tribunale ha dichiarato la nullità del marchio BIOLINDO, in relazione ai prodotti di cui alla classe merceologica n. 3 di Nizza (preparati per la sbianca e altre sostanze per il bucato; preparati per pulire, lucidare, sgrassare e abradere; saponi; profumeria, olii essenziali, cosmetici, lozioni per capelli; dentifrici) per assenza di capacità distintiva ai sensi dell’articolo 7.1 lett. b) e c) del Regolamento UE n. 1001/2017 sul marchio dell’Unione europea (di seguito “RMUE”).
L’articolo 7.1, lettera b) esclude la registrazione di segni privi di carattere distintivo; l’articolo 7.1, lettera c), invece, esclude dalla tutela garantita con la registrazione i marchi composti esclusivamente da segni o indicazioni che in commercio possono servire per designare la specie, la qualità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica, ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o servizio.
Più precisamente, il Tribunale ha dapprima riconosciuto il carattere meramente descrittivo e non già distintivo del marchio BIOLINDO e ha quindi osservato come esista una evidente intersecazione tra le due cause di impedimento alla registrazione indicate alle lettere b) e c) dell’articolo 7 RMUE. Infatti, un marchio che sia descrittivo di caratteristiche di determinati prodotti e servizi deve ritenersi in quanto tale necessariamente privo di carattere distintivo con riferimento a tali prodotti e servizi, riducendosi ad un “messaggio informativo ordinario circa il genere, la qualità e le caratteristiche dei prodotti in parola”.
Nella sentenza in commento, il Tribunale ha ripercorso la giurisprudenza comunitaria sviluppatasi in relazione all’applicazione dell’articolo 7.1 lettera c) RMUE con riferimento ai segni descrittivi.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, l’esclusione dalla registrazione dei segni di cui alla lettera c) perseguirebbe una finalità di interesse generale consentendo la libera utilizzazione da parte della collettività dei segni e delle indicazioni descrittive di prodotti e servizi.
Per questa ragione il requisito viene interpretato in modo piuttosto rigoroso. Innanzitutto, l’impedimento alla registrazione sussiste non solo quando un segno sia effettivamente e correntemente utilizzato per designare, direttamente o tramite la menzione di una delle sue caratteristiche, un prodotto o un servizio, ma è sufficiente che il segno possa essere utilizzato a tali fini. Inoltre, deve considerarsi irrilevante ai fini dell’accertamento della natura descrittiva del segno che le caratteristiche dei prodotti e servizi descritte siano essenziali piuttosto che accessorie sul piano commerciale così come è irrilevante che vi siano dei sinonimi utilizzabili per designare le medesime caratteristiche.
Nel caso di specie, si rendeva necessaria la valutazione della capacità distintiva o invece meramente descrittiva di un marchio denominativo, composto appunto dalla sola parola “Biolindo” rappresentata in carattere corsivo e privo di una particolare componente grafica.
Due sono poi gli elementi in relazione ai quali deve determinarsi il carattere eventualmente descrittivo di un marchio: da un lato, i prodotti e servizi per cui è richiesta la registrazione, e nel caso di specie si trattava di detersivi; dall’altro, la percezione del pubblico cui ci si rivolge, che il Tribunale ha identificato nei consumatori medi, normalmente informati e ragionevolmente attenti e avveduti.
Il giudice, sulla base di questi due parametri, ha quindi ritenuto che l’espressione “Biolindo” non potesse che essere compresa dal pubblico nei seguenti termini “prodotto pulente ottenuto mediante processi naturali che rispettano il ciclo vitale dell’ambiente”; da ciò, stante il tipo di prodotto designato, discenderebbe dunque la natura descrittiva del marchio contestato.
Per giungere a tale conclusione il Tribunale, richiamando le definizioni contenute nell’Enciclopedia e Vocabolario della Lingua italiana online “Treccani”, ha in particolare osservato che il suffisso “bio” è ormai generalmente utilizzato come rimando a produzioni ecosostenibili, mentre il termine “lindo” è ampiamente usato nel mondo dei prodotti per la pulizia della casa come sinonimo di pulito, indicando quindi una capacità pulente del prodotto.
Con più specifico riferimento al suffisso “bio”, il Tribunale osserva che anche se esso può essere percepito in modo diverso a seconda del prodotto contraddistinto e commercializzato, in ogni caso è evidente il rinvio all’idea di rispetto dell’ambiente, di utilizzo di materiale naturale o di procedimenti di fabbricazione biologica.
Peraltro, non è stato ritenuto sufficiente a far acquisire al segno una qualche capacità distintiva, nemmeno l’unione di queste due parole che risulta infatti in un termine, Biolindo, non percepito dal medio consumatore come di fantasia, ma sempre come espressione meramente informativa.
Sul “secondary meaning”
Avendo accertato la carenza di capacità distintiva originaria del marchio BIOLINDO, il Tribunale si è poi soffermato sull’ulteriore argomentazione avanzata da Alfa volta a fare accertare l’acquisto progressivo del suddetto carattere distintivo da parte del segno contestato, secondo la possibilità riconosciuta dall’art. 7.3 RMUE. Si parla, in tal proposito, del c.d. “secondary meaning”, fenomeno di matrice anglosassone in forza del quale, a fronte dell’uso fattone, una determinata parola o espressione aggiunge al suo (generico, descrittivo o non originale, e in quanto tale non proteggibile) significato iniziale anche una seconda (caratterizzante) connotazione, suscettibile di identificare determinati beni o servizi, divenendo così un vero e proprio segno identificativo e distintivo.
Per cogliere i contorni del tema attraverso un esempio particolarmente esplicativo, può farsi riferimento alle notorie vicende del marchio “Rotoloni”, per il quale – a seguito di sentenza di cassazione con rinvio della Corte di legittimità – la Corte d’Appello di Milano nel 2018 ha accertato la secondarizzazione sia nel suo utilizzo in solitaria (“può verificarsi che un termine descrittivo – nel caso di specie “Rotoloni”- come tale non proteggibile, pur mantenendo il proprio significato originario, ne assuma col tempo, in ragione di un uso intenso e fortemente pubblicizzato, un altro secondario di segno distintivo, ovvero di provenienza di un prodotto, da una certa impresa”) che unitamente al marchio generale “Regina” (“il fenomeno del secondary meaning può avvenire anche per via di un uso del termine quale componente di un marchio complesso […] non può escludersi che l’acquisizione del carattere distintivo del marchio “Rotoloni” possa derivare dal suo uso in combinazione con l’altro marchio registrato “Regina””). I casi però paiono poter essere più numerosi: si pensi al marchio “Cicciobello” per il famoso bambolotto, “Spizzico” per i servizi di ristorazione, “Divani&Divani” per la denominazione riconducibile alla società Natuzzi.
L’art. 7.3 RMUE fissa infatti una deroga al divieto di registrazione dei marchi sprovvisti di “innata” capacità distintiva (per genericità, mera descrittività o mancanza di originalità), da applicarsi quando questi abbiano acquistato, per i prodotti o servizi per i quali ne venga richiesta la registrazione, il predetto carattere distintivo a seguito di un uso continuato e consolidato all’interno del mercato di riferimento. L’art. 13 c.p.i replica la norma comunitaria, escludendo non solo l’impedimento alla registrazione (art. 13, c. 2 c.p.i), ma anche la possibilità di dichiarare o considerare il segno nullo qualora quest’ultimo abbia acquistato carattere distintivo prima della domanda o della eccezione di nullità da parte del terzo (art. 13, c. 3).
Tuttavia, nessuna delle due disposizioni fornisce una specificazione di detta nozione di “uso” suscettibile di far acquisire capacità distintiva al marchio contestato, non chiarendone, ad esempio, i termini dell’estensione temporale o geografica. D’altro canto difficilmente potrebbe essere altrimenti, se si considera che la “secondarizzazione” del marchio è un effetto solo indirettamente dipendente dalla condotta del titolare, e da ricondursi piuttosto ad una variazione della percezione da parte del pubblico di riferimento, il quale, in conseguenza dell’uso fattone, comincia a distinguere il segno quale espressione di una determinata impresa da ricollegarsi a una specifica categoria di beni e servizi. Qualcosa di diverso dal carattere della notorietà del segno stesso, stante la configurabilità di una fattispecie che veda un marchio noto (perché ampiamente diffuso sul mercato) ma comunque non secondarizzato.
Alla sopracitata “carenza” ha supplito in diverse occasioni la giurisprudenza tanto interna quanto comunitaria, elaborando una serie di parametri tramite i quali inferire la predetta variazione percettiva dei consumatori. Volendo mutuarli dalla sentenza in commento: “ai fini del soddisfacimento di tale onere probatorio occorre dimostrare l’intensità, l’estensione geografica e la durata dell’uso, oltre che l’entità degli investimenti pubblicitari effettuati, la quota di mercato detenuta e la percentuale di consumatori che, grazie al marchio, identifica il prodotto o il servizio”. Si tratta comunque di fattori sempre da considerare globalmente, rifuggendo la possibilità che uno di essi possa singolarmente risultare dirimente ai fini della valutazione. Inoltre, sarà possibile servirsi di indagini demoscopiche e sondaggi di mercato (come accaduto nella vicenda “Rotoloni”), volti ad accertare la ricettività di un determinato numero di persone in relazione alla parola o all’espressione di cui trattasi.
Nel caso di specie, a prova della secondarizzazione del marchio contestato, parte attrice aveva offerto i risultati di alcune ricerche effettuate su Google e su Amazon e gli estratti di alcuni cataloghi pubblicitari atti a testimoniare l’utilizzo del marchio BIOLINDO precedentemente alla data di registrazione. A conferma di quanto accennato in precedenza, tuttavia, il Tribunale di Milano ha considerato insufficienti i predetti elementi probatori, “essendo richiesta ai fini della prova dell’acquisizione di capacità distintiva da parte del segno la (diversa) prova di un ulteriore significato di cui questo era inizialmente sprovvisto” concludendo come, al contrario, non potesse inferirsi “alcun automatismo tra la mera presenza del prodotto su estratti pubblicitari anteriori alla sua registrazione e l’acquisizione del secondary meaning”.
Foto: Luigi Russolo, Dinamismo di un’automobile, 1913